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Canopie e poesia

Sono una grande appassionata di documentari naturalistici.  Secondo me chi lavora alla creazione di documentari sulla natura fa il lavoro più bello del mondo, anche se scomodo, magari pure pericoloso e faticoso.

In questi giorni ho visto un documentario avvincente sulle vicende di due gruppi di scimpanzé nelle foreste primordiali  Ngogo in Uganda. Tra le tante immagini affascinanti, una in particolare mi ha colpito.   

Il modo in cui gli scimpanzé indagano con il loro sguardo intelligente le chiome degli alberi.

Scrutano in alto alla ricerca di segnali, per scorgere eventuali intrusi o pericoli, per cercare la frutta di cui si cibano e altre prede, per trovare rifugio dalla pioggia al riparo di grandi foglie degli alberi tropicali o per mettersi in salvo quando scoppiano zuffe furibonde tra i maschi che danno sfoggio della loro forza.

Quello sguardo verso l’alto.

Quel desidero di salire e di avvicinarci al cielo.

Noi esseri umani abbiamo perso la capacità di muoverci agilmente tra i rami degli alberi, anche se da bambini gli alberi sono una calamita per arrampicate selvagge o maldestre. Poi per volare abbiamo inventato i palloni aerostatici e gli aeroplani.

Ma l’istinto che ci fa scrutare tra le fronde degli alberi rimane ed è quella curiosità che ha spinto l’autrice del secondo libro della mia bibliografia arborea a diventare una delle massime esperte delle volte forestali del nostro pianeta.

Tra la Terra e il Cielo. La vita segreta degli alberi.

di Nalini N. Nadkarni

Editore: Castelvecchi (Roma)

Nalini Nadkarni è una biologa ed ecologa americana specializzata nello studio delle chiome forestali. Si è concentrata nella comprensione dell’importanza delle canopie  per l’equilibrio ecologico delle foreste pluviali: è suo il 1° database mondiale –  il Big Canopy Database –  che raccoglie le informazioni sul numero e la morfologia delle volte forestali del pianeta.

Dunque una scienziata che opera in ambito accademico ed è anche pioniera nel portare l’educazione naturalistica al di fuori del mondo universitario.

Per esempio nelle carceri, oppure collaborando con scrittori, poeti, danzatori, musicisti e artisti visivi per comprendere e comunicare meglio le relazioni tra la natura e gli esseri umani.

Il suo obiettivo principale nel coinvolgimento di un pubblico più allargato è portare la scienza e gli scienziati alle persone che non hanno o non possono avere accesso ad essa nelle sedi tradizionali.

Nelle note a questo articolo ho inserito il link il sito dell’autrice (*) – in inglese – molto ricco di informazioni, articoli e studi.

Per conoscere e studiare le volte forestali ha imparato a scalare gli alberi delle foreste pluviali e questo le ha permesso di compiere le sue osservazioni tra i rami a molti metri di altezza da terra.

Mi sembra una prospettiva intrigante.

Arrampicarsi sugli alberi è un sogno che ha ispirato poeti, scrittori, registi cinematografici, studiosi. Anche architetti: ho letto che è possibile alloggiare per vacanza in case costruite sugli alberi. Quando vedo nei giardini le piccole casette per bambini costruite sugli alberi sento spesso un’attrazione, mi piacerebbe proprio arrampicarmi e osservare il mondo dall’alto, appollaiata ad un ramo come un uccello.

Anni fa durante un viaggio nelle regioni Baltiche sono stata su una piccola isola in Germania, Rugen.

Faggeta sull’Isola di Rugen – Germania

L’isola è verdissima e offre poetici scorci sul mare. Nel territorio di Rugen si può esplorare il   Parco Nazionale Jasmund che  accoglie il più vasto bosco ininterrotto di faggio selvatico della costa del Mar Baltico. La  faggeta di Jasmund è Patrimonio dell’Umanità Unesco come “Antica faggeta della Germania”.

Treetop Walk – Isola di Rugen – Germania

A Rugen ci vorrei proprio tornare per perdermi di nuovo tra le sue antiche e silenziose faggete e anche per salire ancora sul Treetop Walk. Si tratta di una installazione torreggiante che tramite un percorso a spirale conduce fino in cima, a 40 metri dal suolo. La torre è letteralmente in mezzo agli alberi, si cammina tra rami e foglie. E’ forse la principale attrazione turistica dell’isola, concepita con una filosofia di ridotto impatto ambientale e arricchita da un bel museo e molte attrazioni per le famiglie e i bambini.

Anche per gli ex bambini, come me. Ero eccitatissima e ricordo l’emozione man mano che salivo, mi avvicinavo ai rami per sfiorarli e poi guardavo giù!

Proprio come quando leggevo il libro di Nalini: ero lì con lei, in arrampicata.

Il libro è ricchissimo di informazioni, in linguaggio per non addetti ai lavori, sulla biologia degli alberi e l’importanza delle volte forestali, e questo non solo per le foreste pluviali, area di suo specifico interesse, ma anche per le foreste e i boschi delle campagne e delle città.  

Nalini prende per mano il lettore e dedica alcuni capitoli del libro a ricordarci quanto sia stretto il legame che l’uomo ha con gli alberi, da sempre.

Per indagare questo legame, si è ispirata al modello della piramide dei bisogni di Maslow, uno dei principali esponenti della psicologia umanistica (**) e si è chiesta: quali sono le “categorie” di bisogni umani che gli alberi ci permettono di soddisfare?

Piramide di Maslow “modificata” da N. Nadkarni – Bisogni dell’uomo soddisfatti dagli alberi

Dalla base fino al vertice della piramide, il legame tra uomini e alberi riguarda tutte le dimensioni della nostra vita: dai bisogni fisici, di sicurezza, di salute fino ad arrivare al gioco e l’immaginazione, alla percezione dello scorrere del tempo e ai simboli.

Giunti in cima alla piramide, gli alberi sono mediatori che ci connettono alla dimensione della spiritualità, del divino e della consapevolezza.

“gli insegnamenti spirituali degli alberi sono universali: dovremmo sforzarci di mettere in collegamento il mondo terreno con quello spirituale, produrre cose che siano utili agli altri, avere radici solide, accettare i cambiamenti inevitabili della vita, vivere consapevolmente, essere felici. Aprirci a qualcosa talmente semplice e piacevole come scalare un albero, o sedersi in silenzio sotto di esso, può far sentire le persone in pace con il mondo e con se stesse”

(pg 241- 242 Tra la terra e il cielo. La vita segreta degli alberi di Nalini Nadkarni. Castelvecchi Editore)

L’uomo moderno si è dimenticato quanto gli alberi siano fondamentali per la vita. Leggere il libro di Nalini aiuta a riattivare una consapevolezza che era ben chiara ai popoli antichi, e che è tuttora centrale  per le popolazioni native.

La salute dell’uomo è profondamente intrecciata con la salute della terra. La chiave per riportare in salute la terra risiede nel modo in cui ci sintonizziamo con la natura e, attraverso la natura, con noi stessi.

Chris Maser, ambientalista americano, è convinto che “imparando a risanare la foresta, la curiamo e mentre curiamo la foresta curiamo noi stessi”.

Io mentre accarezzo un alerce vetusto in Cile

Quando siamo tristi e non riusciamo più a sopportare la vita, allora un albero può parlarci così: Sii calmo! Sii calmo! Guarda me!
La vita non è
facile, la vita non è difficile.


HERMAN HESSE, Il canto degli alberi

Le frequenti incursioni poetiche di cui l’opera  è disseminata sono un’altra ragione per cui questo libro mi è tanto piaciuto.

Una biologa forestale che ha sentito necessario accompagnare il suo racconto con il linguaggio poetico è una piccola rivelazione.

“offro questo libro come un invito a considerare quanto gli approcci di scienza, arte e umanistica possano, tutti insieme, portarci ad una maggiore consapevolezza verso gli alberi”

Nalini M. Nadkarni

La parola poetica coglie la dimensione emozionale, di incanto, di profonda ammirazione e di potente simbolismo che nell’esperienza umana sperimentiamo quando siamo al cospetto di alberi che ammiriamo o a cui siamo legati.

Ogni albero, ogni essere che cresce mentre
Lo fa dice questa verità: raccogli ciò
Che semini. Nella vita, breve quanto
Mezzo respiro, non piantare nulla, solo
Amore.

Rumi

La prossima volta che incontrerai un albero che ti piace, magari prova a leggergli una poesia.

Io lo faccio ogni tanto, in silenzio se sono da sola oppure a voce alta in occasione delle esperienze in natura con piccoli gruppi che accompagno nei boschi.

Gli alberi non hanno orecchie eppure io sono convinta che ci ascoltino.

Note

(*) https://nalininadkarni.com/

(**) https://it.wikipedia.org/wiki/Psicologia_umanistica

tutte le foto sono di Stefano Romani

"La via più chiara per penetrare nell'universo passa per l'intrico di una foresta" (John Muir)

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Alberi-mammut

Ripenso, talvolta con un po’ di nostalgia, ai lunghi pomeriggi dopo la scuola e mi rivedo immersa nella lettura delle storie dei pirati di Salgari mentre sognavo arrembaggi tra i mari tropicali.

I libri mi hanno sempre fatto molta compagnia.

Come chiunque ami leggere, col tempo ho coltivato un mio metodo nella scelta di storie e autori che sentivo più vicini e interessanti: ho letto classici, romanzi storici, fantascienza, gialli, fantasy.

Per lo più letteratura europea, nord e sud americana, russa, israeliana, anche giapponese.

Fidandomi anche di consigli di lettura, pochi però, sempre e solo di persone stimate. Ho trascorso ore indimenticabili insieme a personaggi che entravano nella mia vita per un tratto di strada e restavano lì come me, come persone in carne e ossa. E’ così: la lettura dei romanzi ci fa vivere ulteriori vite e non è solo una faccenda che riguarda la mente, si parla di emozioni, respiro, sensazioni del corpo.

Una sorta di realtà aumentata.

Qualche anno fa c’è stato un cambiamento nei miei interessi, ho quasi smesso di leggere romanzi anche se a casa ci sono ancora scaffali pieni di tascabili che attendono il loro turno.

Non sono bene come sia successo, e forse non ha così tanta importanza, immagino sia una fase.

Questo cambiamento potrebbe anche essere collegato al rifiorire del mio amore per la natura, un’attrazione che ha cambiato le mie prospettive, il modo in cui guardo a me stessa e alla vita.

Così, oltre a stare nei boschi e in natura ogni volta che posso, anche per accompagnare piccoli gruppi, ho iniziato a leggere libri su alberi e piante, sull’ecologia profonda, l’etologia, la biologia, l’antropologia, l’ecopsicologia, la teoria dei sistemi, anche la fisica quantistica (divulgativa!), la filosofia e altro ancora. E la poesia. Insomma, un bel miscuglio !

Ho incontrato sguardi che mi hanno aiutato a comprendere un poco meglio le origini del nostro profondissimo legame con la natura, a volte anche attraverso l’intuito e l’arte. Un legame, quello con gli ambienti naturali, da cui negli ultimi 200 anni ci siamo sempre più allontanati fisicamente ed emotivamente a causa delle grandi trasformazioni che la rivoluzione industriale e la tecnologia hanno introdotto. E alla progressiva concentrazione della vita umana nelle grandi città. Oggi circa la metà della popolazione mondiale vive nelle agglomerazioni urbane e la tendenza prevede un’ulteriore crescita nei prossimi 10 anni per arrivare fino al 70% e oltre.

La natura per molti di noi oggi è una sorta di sfondo, una quinta scenica, un insieme di risorse da utilizzare più o meno intensivamente.

Un parco giochi.

In ogni caso appare sempre meno percepita come un tutto, una rete complessa di cui siamo parte anche noi, al pari degli altri animali, delle piante, delle rocce, di mari, laghi e fiumi, del sistema solare e delle galassie!

Questa è una fase dell’evoluzione in cui l’essere umano si percepisce come il fulcro centrale della Terra,  denominata Antropocene, un periodo nella scala geocronologica della vita sul pianeta in cui gli esseri umani esprimono un impatto “rilevante” su tutto l’ecosistema terrestre.

Senza addentrarmi su questo tema, quel che mi interessa è approfondire l’eredità, culturale ed evoluzionistica, che le migliaia di generazioni dei nostri avi umani, vissuti in ambienti naturali e selvaggi, ci hanno trasmesso: un patrimonio di cui siamo in buona parte poco consapevoli e che pure guida tanti nostri comportamenti, scelte e anche emozioni.

A questo proposito, Theodore Roszak, il “padre” dell’ecopsicologia, così definisce l’inconscio ecologico

“L’inconscio collettivo, al suo livello più profondo, racchiude l’intera intelligenza ecologica di tutte le specie, la fonte da cui è scaturita la cultura, come riflesso consapevole di una emergente mente della natura. La sopravvivenza della vita e di tutte le specie non sarebbe stata possibile senza un tale sistema di saggezza autoregolantesi. Era lì per guidare questo sviluppo attraverso tentativi ed errori, selezione ed estinzione, così come era lì nell’istante del big bang per condensare i primi lampi di radiazione in materia solida.

(Theodore Roszak, The Voice of the Earth – An Exploration of Ecopsychology).”

Io sono molto attratta dagli alberi e quindi il mio inconscio ecologico deve essere per qualche ragione (alcune credo di averle comprese) parecchio impastato con radici e foglie.

Ecco dunque, per tornare ai libri, che nella mia bibliografia personale ispirata alla Natura, i boschi e le foreste hanno un posto speciale.

Mi interessano gli aspetti scientifici e biologici, almeno i principali, di come gli alberi prosperano e affrontano le sfide ecologiche (ah… tornassi indietro nel tempo mi iscriverei a Scienze Forestali).

E poi, anzi di più, il legame sociale, culturale, affettivo, anche spirituale che il genere umano ha intrecciato con il popolo silenzioso delle creature radicanti.

Mi piace tanto contemplare gli alberi e scambiare dialoghi “sottili” con questi interlocutori silenti. Altrettanto mi affascina comprendere meglio la relazione ricchissima, complessa e archetipica che unisce alberi ed esseri umani. Per soddisfare una mia curiosità e penso anche per conoscere me stessa un po’ meglio.

Ho scelto quindi, tra i molti letti finora, cinque titoli in cui gli alberi sono protagonisti. Per varie ragioni mi hanno conquistato e li segnalo volentieri a chi dovesse inciampare tra queste righe. Mi sembra anche che ci sia un filo, anzi una radice, anzi molte radici, che li collega nel micelio della mia immaginazione.

Ne scriverò seguendo l’ordine cronologico con cui li ho letti, dunque non una classifica, per me sono tutti libri importanti che mi hanno aiutano ad ampliare lo sguardo.

Inizio oggi con il primo in questa mia mini bibliografia arborea.

Giona delle Sequoie

Viaggio tra i giganti rossi del nord America

di Tiziano Fratus

(Bompiani Overlook, 2019)

Tiziano Fratus è un autore che seguo e leggo da tempo, anzi credo di poter dire che siano stati proprio i suoi libri a orientare la mia attenzione verso la produzione letteraria imperniata sulla Natura.

Poeta e uomo-radice, come ama definirsi, Fratus è “autore di una costellazione di opere che abbraccia poesia, narrativa, saggistica e fotografia, tutti capitoli di un vasto silvario in fieri” come recita la biografia del suo bel sito studiohomoradix.com

Cito, sempre dal suo sito sopra menzionato, un bel ritratto di Fratus:

«Una delle voci più originali del nature writing in Italia, Tiziano Fratus è anche qualcosa di più: è un poeta radicale, un cercatore d’alberi, un filosofo che pensa e trova i suoi pensieri nei boschi. La sua dendrosofia è l’augurio di una saggezza arborea in cui tutto dialoga con tutto: radici, foglie, uccelli, insetti, suoni, umori, tempo» (Serenella Iovino, Università della North Carolina Chapel Hill)

Fratus ha pubblicato diversi libri con importanti case editrici italiane e nel sito  studiohomoradix.com  (nelle note il link), ricchissimo di spunti e approfondimenti, si può trovare anche il calendario delle tante  iniziative di incontro con lettori e appassionati, molti dei quali avvengono in boschi e parchi cittadini. In uno di questi eventi boscosi ho potuto conoscere Tiziano Fratus che guidava un piccolo gruppo di “adoratori degli alberi” (di cui facevo parte anch’io) nell’esplorazione a piedi del parco della Villa Reale di Monza, accompagnata da letture e brevi meditazioni tra alberi secolari.

Giona delle Sequoie è un libro a cui sono proprio affezionata: nel 2013 ho visitato alcuni dei grandi parchi americani in cui si possono ammirare le sequoie, protagoniste del libro: nell’incontro di Fratus con queste incredibili creature ho rivissuto i momenti di autentico stupore provati dinanzi a tali creature gigantesche.

“In California ho incontrato le più vaste creature del pianeta, “cose viventi”, living things le chiamano gli americani: le sequoie. Eden verticali, alberi maestosi, antiche foreste incernierate in silenzi preistorici, cattedrali spirituali ove depositare i dubbi, le incertezze, i ricordi”.

da Giona delle Sequoie, Tiziano Fratus

Un diario di viaggio in ambienti naturali magnifici e misteriosi, ricco di riferimenti alla storia della terra americana che li ospita, la California, e alle vicende di pionieri, ecologisti ante litteram, poeti, pittori, fotografi.

Un racconto personale e intimo degli incontri dell’autore con creature arboree fuori scala, templi naturali in cui raccogliersi anche in meditazione.

Le Sequoie sono creature quasi soprannaturali per dimensioni (alcune sequoie superano i 2.000 anni di età e sono altre oltre 100 metri) e sembrano arrivare da ere geologiche passate, infatti non a caso sono chiamate anche alberi-mammut. Ad esse ci si avvicina con riguardo e ammirazione silenziosa.

Mettendosi in ascolto dell’energia magnetica che emanano e dell’ intelligenza con cui hanno attraversato migliaia di anni, incendi, piogge torrenziali, pesanti disboscamenti.

Quei tronchi possenti e quelle altezze vertiginose ci accolgono, ci parlano anche di noi stessi.

“M’immergo nel paesaggio, raggiungo i contenitori della vita, totem che uniscono la materia di cui siamo fatti, la terra e il cielo. E’ qui, mi chiedo, che si raccolgono le anime di coloro che non ci sono più? Forse l’anima di un mio avo risiede nel Grizzly Giant. O forse no. Ma alla fine è meglio credere che non credere affatto”.

dalla quarta di copertina di Giona delle Sequoie, Tiziano Fratus, Edizioni Bompiani Overlook

E’ possibile ammirare questi alberi così grandi e altissimi anche in Italia, ve ne sono diversi nei nostri parchi e arboreti.

Uno dei capitoli finali del libro riporta l’elenco degli esemplari di Sequoia più annosi del nostro paese, informazioni preziose che si possono rintracciare anche in altri libri dell’Autore che segnalo nelle note all’articolo.

Quello che qui da noi non troviamo sono interi boschi di Sequoie. Camminare tra giganti, esserne circondati, sentirsi creature lillipuziane, stare costantemente con il collo piegato all’insù per cercare di scorgerne la chioma, sapere che sono lì da migliaia di anni.

C’è una parola in inglese che sintetizza bene gli stati d’animo che si provano dinanzi a scenari naturali straordinari, nel senso di fuori dall’ordinario: awe. Rimanda al sentirsi rapiti dalla bellezza, incantati dalla maestà, sbalorditi, ma anche un poco in soggezione, sbigottiti, con un senso di timore reverenziale.

Nelle foreste di sequoie del Mariposa Grove of Giant Sequoias e del Sequoia National Forest mi sono sentita così, e le foto di quel viaggio mi ritraggono con un’espressione trasognata, incredula.

Una piccola umana felice di sostare all’ombra di giganti legnosi.

NOTE ALL’ARTICOLO

https://studiohomoradix.com/fratus/

  • Manuale del perfetto cercatore d’alberi, di Tiziano Fratus (Feltrinelli, 2017)
  • L’Italia è un bosco, di Tiziano Fratus  (Laterza, 2014)

Viaggio nell’inverno del Nord

Dopo la pausa forzata di questi ultimi anni, nella scelta della destinazione del primo “vero” viaggio del 2023 ho seguito la mia attrazione per la Natura, gli spazi ampi, il silenzio.

Alcuni viaggi fatti in passato, insieme a letture più recenti (soprattutto lo scrittore paesaggista americano Barry Lopez di cui ho già parlato in un precedente articolo), hanno fatto ruotare la bussola verso il Nord del nostro continente. Oltre il parallelo che delimita il Circolo Polare Artico, nella regione della Lapponia Finlandese, più precisamente sul lago Inari, terra del popolo Sàmi (o Sampi).

“Per gli esseri umani, vivere nel nord significa incontrare il mondo invisibile e confrontarsi con la consapevolezza profonda di non poter controllare la natura e la vita.

Per questo le persone cercano spazi che li aiutino a connettersi con l’inesplicabile e l’assenza di parole.

Anche nella loro vita di tutti i giorni.

Per i Sàmi, i paesaggi, i luoghi, hanno sempre avuto i loro spazi sacri, ad esempio l’isola di Ukonsaari all’interno del lago Inarijarvi”.

Queste parole, che ho ricopiato da un pannello posto nel bellissimo museo di Inari e dedicato alla cultura Sami (Siida – Sami Museum / Nature Centre) esprimono molto bene alcune delle riflessioni che ho fatto durante e dopo il viaggio.

Le temperature estreme, le condizioni di vita difficili, la poca luce delle giornate invernali, tutto riconduce all’essenzialità e alla conservazione delle energie.

Per i Sàmi, presenti nelle terre artiche del nord Europa dall’età del ferro, dediti al nomadismo fino ai primi del ‘900, vivere a queste latitudini ha significato sviluppare una cultura tenace, ingegnosa, pratica, in profonda sintonia con l’ambiente.

I Sàmi sono una minoranza presente nei territori di 4 paesi (Russia, Finlandia, Norvegia e Svezia), l’unica popolazione che è stata riconosciuta come un popolo indigeno dall’unione europea (proprio a Inari c’è  anche il Parlamento Sàmi).

Le origini, il linguaggio e cultura Sàmi sono radicate nella relazione tra le comunità umane e la natura (la terra, le acque, le foreste, gli animali) in una visione del mondo spirituale di tipo animista. Molti gli  animali sacri ai Sàmi: le renne, gli orsi, i lupi.

Nella cosmogonia Sàmi gli sciamani, grazie al suono dei loro tamburi, mettevano in connessione i “mondi” (le dimensione terrena con quella della terra e del cielo) facendosi messaggeri e tramite tra le dimensioni invisibili della realtà e quelle visibili

“Qui 
al cielo blu
alla breve estate
gli uccelli cantano
il Sami
con il vento in faccia”

(Nils-Aslak Valkeapaa)

E’ affascinante questo fortissimo legame dei Sàmi con la terra, i luoghi, la natura, a dispetto della durezza del clima, almeno ai nostri occhi di cittadini abituati ad ogni tipo di comfort.

Eppure, in quel clima aspro e impegnativo vi è tanta bellezza custodita nella memoria delle generazioni di uomini e donne che hanno saputo trovare spazio di vita in una terra coperta dalla neve nella più parte dei mesi.

Ciò che agli occhi di uno straniero può apparire solo come un paesaggio naturale magari anche selvaggio e affascinante, è per i locali Sàmi un paesaggio culturale vivente.

Esso rappresenta la memoria di moltissime generazioni.

I Sàmi oggi conducono le loro vite tra le comodità moderne, eppure io ho percepito anche tra le generazioni più giovani l’amore per la storia e la cultura di questo popolo antico, insieme al desiderio di celebrare le tradizioni, il rispetto e l’amore per la natura.

Il pannello all’ingresso del museo Sàmi dice ancora sui luoghi:

(….)

L’importanza dei luoghi e dei nomi dei luoghi

Il nome di un luogo è un segno di vita, un pezzo di storia.

Il nome non è nulla di speciale in sé

qualcuno ha battezzato la baia e le sue spiagge sabbiose

ma è così che si dà il nome ad una persona

un padre dà il nome a sua figlia

una madre a suo figlio

questi luoghi sono più vecchi

di qualsiasi altra persona

queste terre sono i nostri figli

(Matti Morottaja)

Aurora Boreale

Una delle ragioni per cui desideravo visitare il Nord nella stagione invernale era ammirare l’aurora boreale.

Un sogno che si è avverato perché quasi ogni sera abbiamo potuto assistere allo spettacolo fantasmagorico dell’aurora, e un giorno soprattutto, guidati da un “cacciatore” di aurore abbiamo potuto ammirare uno degli spettacoli più intesi di quelle settimane, confermato anche dai locali.

Cos’è l’Aurora Boreale?

Rinviando ad approfondimenti su siti specializzati, qui di seguito in breve.

Gli elettroni solari sono distribuiti nello spazio in forma di vento solare. Quando raggiungono la parte più alta dell’atmosfera terrestre, gli elettroni interagiscono con gli atomi di ossigeno e nitrogeno all’altezza di circa 100 km, creando l’Aurora Boreale che vediamo sulla Terra.

Le sfumature di colore rosso e verde si formano allorché gli elettroni del sole collidono con gli atomi dell’ossigeno, mentre i colori viola e blu dell’aurora si creano nella collisione tra gli elettroni del sole e gli atomi di nitrogeno.

Il campo magnetico della terra indirizza i venti solari verso un’area, detta aurorale, vicina alle regioni magnetiche polari.

da un pannello del museo di Inari della Cultura Sàmi

Alla spiegazione scientifica, che è già di per sè affascinante, mi piace affiancare anche la versione mitica (una fra le molte) della leggenda Sàmi sull’Aurora.

Secondo un antico mito Sami, a creare l’Aurora Boreale sarebbe una volpe che, correndo velocemente sulle alture artiche, colora il cielo con le scintille che scaturiscono dal contatto tra la sua coda e la fitta coltre di neve.

fonte web

E per finire, l’esperienza di questo viaggio per me, ma credo anche per i miei compagni, si è sviluppata su più piani.

E’ stata un’esplorazione sensoriale ed emozionale.

I colori

Su tutti,  il bianco: che calma, svuota la mente, amplia lo sguardo. Fa vuoto.

Il violetto delle infinite albe, l’arancione pallido dei lunghi tramonti.

Il buio, profondo, siderale, delle notti stellate.

Il verde psichedelico e ultraterreno dell’aurora boreale.

Le sensazioni del corpo

Lo scricchiolio perenne della neve sotto i piedi mentre cammini.

Il freddo secco e pungente dell’aria che entra nel naso.

Le mani che diventano presto semi congelate appena togli i guanti.

Il calore del fuoco acceso che fa nuovamente scorrere il sangue nelle vene.

L’odore del muschio e della corteccia di betulla.

Le emozioni emerse

Stupore

Gioia

Incredulità

Eccitazione

Gratitudine

I pensieri, il lavorio mentale, la traduzione in parole di quanto esperito, lassù mi venivano difficili. Mi sembrava di non trovare alfabeti per spiegare, e per la verità non ne sentivo il bisogno impellente.

La mente pensante leggera, e se pure c’era qualcosa che richiedesse una elaborazione più complessa, mi sembrava di esaurire velocemente il compito. Era più urgente tornare alla contemplazione. All’immersione nel bianco e nel violetto del crepuscolo. Alla carezza leggera del lichene. Al fuoco nella tenda.

Un’esperienza di purificazione che si è manifestata soprattutto di notte.

Ne parlavamo la mattina riuniti a colazione prima di uscire con i compagni di viaggio: le notti sono state spesso accompagnate da molti sogni, alcuni anche ricchissimi di significati manifesti attinenti a fasi cruciali della vita vissuta. In altri casi sonni agitati, notti insonni.

Gli spazi ampi, il bianco ovunque, il freddo hanno forse fatto vuoto nelle menti  lasciando spazio all’inconscio che si è potuto manifestare.

Per andare verso l’ignoto, come titola la canzone Dovdameahttumii dell’artista Sàmi Ingá-Máret Gaup-Juuso.

Dovdameahttumii (Verso l’ignoto, nella traduzione di Jani Saunamäki dal Sàmi al finlandese tuntemattomaan).

"La via più chiara per penetrare nell'universo passa per l'intrico di una foresta" (John Muir)

Estratto in tre parole

Fra pochi giorni sarà Natale e presto ci tufferemo nel nuovo anno.

E’ stato un anno di grande intensità questo 2022 per gli accadimenti, gli incontri, i distacchi, le emozioni, le scoperte.

Provo gratitudine, un senso di sorellanza e fratellanza, una tenerezza così intensa che quando ci penso mi commuovo.

Non mi sono sentita sola anche nei momenti faticosi, e qualcuno ce n’è stato.

Sono fiduciosa, nonostante i tempi e la navigazione di mari in burrasca.

Ho incontrato tante persone curiose, vitali, accoglienti, sorridenti, con sguardi immensi, ansiose di danzare con la vita, aperte all’incontro, con una voglia umanissima di specchiarsi negli occhi degli altri, di ascoltare, commuoversi, imparare e disimparare, fare scoperte.

Ho letto libri bellissimi, poesie necessarie, accarezzato cortecce di alberi favolosi.

Ora è tutto impastato, mescolato, intrecciato: affiderò all’inverno questo humus insieme ai semi del mio nuovo in attesa delle future trasformazioni.

Se mi si dovesse chiedere quali sono le tre parole che meglio rappresentano questo 2022 sceglierei, e scelgo:

STUPORE

FIDUCIA

SOSTARE

Ma più di tutto mi affido, e ti affido, alle parole di Mariangela Gualtieri.

LA CURA

Adesso è forse il tempo della cura.

Dell’aver cura di noi, di dire

noi. Un molto largo pronome

in cui tenere insieme i vivi,

tutti: quelli che hanno occhi, quelli

che hanno ali, quelli con le radici

e con le foglie, quelli dentro i mari,

e poi tutta l’acqua, averla cara, e l’aria

e più di tutto lei, la feconda, la misteriosa terra.

È lì che finiremo.

Ci impasteremo insieme a tutti quelli

che sono stati prima. Terra saremo.

Guarda lì dove dialoga col cielo

con che sapienza e cura cresce un bosco.

Mariangela Gualtieri

E al pianoforte e alla voce di Hania Rani, una scoperta musicale recente per me.

A presto ci rivediamo nei boschi! Buon 2023!

"La via più chiara per penetrare nell'universo passa per l'intrico di una foresta" (John Muir)

Il paesaggio tra selvaticità e immaginazione

Quando trascorro del tempo immersa in paesaggi naturali mi accorgo che la mia immaginazione si risveglia, ho l’impressione che il flusso di pensieri si faccia più largo e risulti più semplice considerare soluzioni nuove.

L’insieme di studi e ricerche riguardanti gli effetti che il tempo trascorso in natura produce sul nostro corpo e sulla psiche è poderoso, alcuni di essi si soffermano proprio sulla relazione tra la creatività e l’esperienza di contatto con la natura.

Un recente articolo pubblicato sul magazine Allos Australia della dottoressa Delia McCabe, dal titolo “The Neuroscience of Nature: How time Outdoors Benefits your Brain” (Le neuroscienze della natura: come il tempo trascorso in natura produce benefici per il tuo cervello), si è soffermato tra gli altri proprio su questo aspetto.

Nel nostro cervello esistono diverse reti neurali che svolgono una varietà di funzioni. Una di queste reti è la “rete in modalità predefinita”, più conosciuta con l’acronimo inglese di DMN (Default Mode Network).        

Il DMN è definito come una rete di regioni cerebrali interconnesse che si innescano quando non siamo attivamente concentrati su qualcosa.

Quando siamo immersi in natura la nostra attenzione sperimenta un effetto denominato “soft focus”.

In particolare, le molte informazioni visive presenti in natura stimolano le capacità di percezione del nostro sistema cognitivo. Circa un terzo dei neuroni della nostra corteccia è dedicato alla percezione visiva. Eppure, anziché esserne affaticati, gli stimoli visivi extra che percepiamo in ambienti naturali sono ciò che il nostro cervello preferisce rispetto ad ambienti che possono sembrare più ordinati ma molto meno attraenti (in particolare gli ambienti artificiali). 

I ricercatori hanno studiato come ci sentiamo quando siamo in natura e utilizzano l’espressione “fluidità percettiva” per descrivere come la natura ci faccia sentire. Sembra che stare in natura offra al nostro cervello una pausa e stimoli in noi emozioni positive in quanto riusciamo ad assorbire informazioni senza sforzo mentale.

Curve naturali, poche linee rette, una miriade di sfumature e colori, accompagnati da diversi tipi di luce e suoni, vengono letti come più coerenti dal nostro sistema percettivo rispetto ad ambienti artificiali.

Questa “fluidità percettiva” e uno stato di attenzione “rilassata” attivano il DMN e i ricercatori ipotizzano che ciò consenta al cervello di associare liberamente aspetti dell’ambiente con i nostri pensieri, idee e ricordi. Lo stato mentale di attenzione “rilassata” può favorire la creatività perché il nostro cervello diventa aperto a connessioni e associazioni che non cogliamo quando siamo attivamente concentrati su qualcosa.

Del resto a quanti di noi è capitato: se abbiamo un problema da risolvere pensarci ostinatamente non sempre ci aiuta a trovare una soluzione, al contrario di una passeggiata in mezzo alla natura che sembra avere l’effetto di rigenerare le nostre idee. Ho letto per esempio che alcune delle intuizioni più rivoluzionare dei fisici quantistici di inizio ‘900 sono proprio avvenute così, con una passeggiata in riva al mare o in un bosco.

Le ricerche su questi temi rappresentano una base scientifica fondamentale per lo sviluppo dei percorsi di Ecopsicologia. Se hai il desiderio di approfondire alla fine dell’articolo troverai alcuni riferimenti bibliografici, oltre al link all’articolo di “Allos Australia” già citato.

La psicologia ambientale e le neuroscienze si interrogano da tempo sui meccanismi neuronali e fisiologici che il trascorrere tempo in natura attiva in termini di cambiamenti delle percezioni, degli stati d’animo, dei pensieri e anche dei comportamenti.

Ma altrettanto affascinante per me è prestare ascolto anche ad una dimensione più profonda, personale, affettiva della relazione con la natura.

Barry Lopez, considerato come il più grande scrittore americano di paesaggi, nel libro “Una geografia profonda” (Galaand Edizioni) scrive:

“A un livello inespresso, l’intimità con la Terra fisica sembra risvegliare in noi  una conoscenza atavica dei legami emotivi, oltre che di quelli biologici, con i paesaggi materiali. Sulla base delle mie ricerche, credo che gli esseri umani sperimentino regolarmente questa connessione primitiva come un piacere diffuso e ineffabile (…)”.

E ancora: “Non è difficile immaginare che un tempo ognuno di noi provasse un fondamentale senso di benessere che sgorgava direttamente dall’intimità, dallo scambio continuo con la profondità nascosta nei luoghi che occupavamo”.

Davide Sapienza, il traduttore e curatore del libro, scrive della post fazione “la domanda centrale di tutti i lavori di Lopez risuona ancora più cristallina, lucida, potente e rimane sempre la stessa: che effetto ha il cambiamento del landscape (il paesaggio) sull’immaginazione dell’uomo, sulla sua cultura?”.

Barry Lopez afferma di essere più preoccupato del destino della nostra immaginazione che di quello biologico della specie umana. Per Davide Sapienza “Lopez tocca il punto nevralgico dell’intoppo che viviamo in questa epoca. E’ qui il fondamento tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore, quel confine sottile dove risiede l’unicità di ogni creatura che rischia di andare perduta”.

L’intimità con i paesaggi che abitiamo è una questione centrale per l’uomo e per la ricchezza dell’esperienza umana. Un’intimità che è fatta di conoscenza, di osservazione, di ascolto, anche di assenza di pregiudizio, in fondo un atteggiamento non tanto differente da quello che esperiamo (o ambiamo ad esperire) nelle relazioni con altre persone. Entrare in intimità e dialogo con i paesaggi naturali, inclusi gli animali e le comunità umane che li abitano, per sentirci più interi, vivi, unici.

E a proposito di animali in un prossimo articolo mi ripropongo di riparlarne con lo sguardo dell’Ecopsicologia, nel frattempo ti consiglio di ascoltare un podcast appassionante che ho incontrato di recente, credo non per caso: “Nelle tracce del Lupo” di Davide Sapienza e Lorenzo Pavolini, con musiche originali di Francesco Garolfi, disponibile sulla piattaforma Rai Play Sound (link alla fine dell’articolo).

Il protagonista del podcast è un animale mitico, una creatura che ha esercitato ed esercita su noi umani attrazione, fascino, timore, un animale “totem” il cui incontro immaginario può farci contattare la nostra selvaticità. Un podcast avvincente, accompagnato dalle voci di chi conosce il lupo, lo ha incontrato, lo studia, lo osserva, divide lo spazio di vita con questo animale affascinante, sfuggente, misterioso e divisivo.

Un animale, il lupo, che popola la nostra immaginazione dalla notte dei tempi, e ispira le parole dei poeti. 

Lo

senti il lupo

che (di)segna le

distanze del mondo,

il geometra selvatico, là,

intorno, semina le sue mille

orecchie a segnavia per coloro

che tra una, due o tre generazioni

torneranno qui, sotto lo stesso sole,

sotto le stesse nuvole in cammino,

rispondendo all’istinto, alla fame

incolmabile di spazi. Lo senti il

lupo che divora le sue cento

code raspose, omaggio ai

cacciatori di diavoli che

la notte affrescano

inferni sulle pareti

delle cappelle diroccate,

ai margini del bosco, dove

credono che Dio si sia ridotto

a crescere sottoforma di radice

di sambuco. Lo senti il lupo

che ti vede coi suoi occhi

macchiati di sangue, sa

che esci e inginocchi,

che mangi foglie e

posi le mani sul

grembo ferito

della madre

Terr

a

La poesia, o natura miniata come la definisce l’autore, si intitola “Lo senti il lupo” ed è di Tiziano Fratus, cercatore di alberi monumentali, scrittore e poeta, pubblicata nel libro “Sutra degli alberi” (Edizioni Piano B).

E tu, cosa diresti al lupo se lo incontrassi, cosa rappresenta per te, per la tua immaginazione, per la tua idea di Natura, il lupo?

Bibliografia

Giuseppe Barbiero e Rita Berto, “Introduzione alla biofilia. La relazione con la natura tra genetica e psicologia” – Carocci Editore

https://www.allos.com.au/mental-health/neuroscience-nature-outdoors-benefits-brain/

Tiziano Fratus, “Sutra degli Alberi” – Edizioni Piano B

Barry Lopez, “Una geografia profonda – Scritti sulla Terra e l’Immaginazione” – Galaand Edizioni

Davide Sapienza, Lorenzo Pavolini “Nelle tracce del Lupo” podcast https://www.raiplaysound.it/programmi/nelletraccedellupo

Il paesaggio tra selvaticità e immaginazione

"La via più chiara per penetrare nell'universo passa per l'intrico di una foresta" (John Muir)

“La via più chiara per penetrare nell’universo passa per l’intrico di una foresta” (John Muir)

Parco Nazionale dello Yosemite (California -USA)

John Muir conosceva molto bene l’intrico delle foreste!

Scoprire la sua biografia significa partire per un’avventura affascinante nel cuore della Natura selvaggia.

Esploratore, botanico, filosofo, alpinista, geologo, scrittore, attivista politico, esponente del movimento filosofico e poetico trascendentalista americano, nasce in Scozia nel 1838 per emigrare con la famiglia da bambino nel Wisconsin.

Tra i primi non nativi a scalare le magnifiche pareti di granito della Yosemite Valley in California, ha esplorato quelle montagne in lungo e in largo, per lo più in solitudine, poi come “guida” a chi come lui desiderava incontrare la natura selvaggia: scalatori, fotografi e pittori.

Sentiva un amore così grande per la wilderness che, in una fase più matura della sua vita, diede vita ad una delle prime forme di ambientalismo della storia moderna.

Grazie a Muir e al Sierra Club, la più antica e grande organizzazione ambientalista degli Stati Uniti, da lui fondata nel 1892 e tuttora esistente, fu affermata la necessità di preservare allo stato selvaggio, almeno per una quota rilevante della superficie, vaste aree naturali del territorio nord americano.

Muir dunque si mise in gioco personalmente per mobilitare opinione pubblica e autorità politiche affinché le aree naturali, in primis quelle che lui conosceva così bene e amava, venissero preservate dagli impatti rilevanti della presenza di alcune attività umane (per esempio il disboscamento e le opere per la costruzione di dighe).

E’ passato allo storia il suo invito all’allora presidente T. Roosevelt a trascorrere tre giorni accampato con lui in tenda, nel 1903, proprio nello Yosemite, tra abeti Douglas, Sequoie e torrenti: più che con le parole, deve aver pensato allora Muir, occorreva far passare attraverso l’esperienza diretta l’incanto, la maestosità, la meraviglia dello spettacolo della natura e della necessità di proteggere e tutelare aree così ricche di biodiversità e bellezza.

E fu proprio grazie a questa iniziativa eclatante che la Yosemite Valley divenne ufficialmente uno dei primi parchi nazionali statunitensi sotto la diretta giurisdizione dello Stato federale.

Ad oggi, l’89% di questo territorio magnifico è ritenuto essere allo stato selvaggio.

Sequoie nel Parco dello Yosemite

Lo sguardo curioso, il desiderio di esplorare luoghi selvaggi mettendosi in ascolto di ogni suono, riconoscere che il vento non soffia sempre uguale, osservare ogni pietra incontrata sul cammino, ammirare gli  animali con l’innocenza degli occhi di un bambino unita al desiderio di mettersi in relazione rispettosa e gioiosa con altre forme di vita, tutta la vita di John Muir per me è di grande ispirazione.

Mi sono emozionata a leggere le testimonianze nei diari che ci ha lasciato: racconti di esperienze memorabili sulle montagne dello Yosemite, avventurose e spirituali al tempo stesso.

Ho vissuto insieme a lui le giornate trascorse sulle pareti di granito, nei boschi di pini e sequoie, sulle rive dei ruscelli, in cima ad un abete per capire cosa significa davvero per un albero stare in mezzo ad una tempesta di vento!

“Ogni cosa sembrava forte e a suo agio, come se si stesse davvero godendo la tempesta, come se volesse rispondere ai suoi saluti più entusiastici.
Si sente molto parlare, in questi tempi, della lotta universale per l’esistenza – ma nessuna lotta, nel senso letterale del termine, si stava verificando qui. Nessuna presa di coscienza del pericolo da parte degli alberi, nessuna supplica – ma una lietezza invincibile, tanto lontana dal giubilo quanto dalla paura “
John Muir  

Andare in montagna è tornare a casa
Saggi sulla natura selvaggia

(Edizioni piano B)

Quanta pace, e letizia anche, si sente nascere nel cuore ascoltando la voce del vento che ora accarezza, ora scuote le cime delle conifere. E’ una voce che parla anche a noi, al nostro cuore, ci rischiara la mente, ci scompiglia i capelli come se fossero rami ondeggianti di un larice.

Si, aveva ragione John Muir: andare in montagna è tornare a casa.

Vento tra i larici nel bosco di Champorcher

Guardare miti le cose rispecchiate dall’acqua

Contemplare la Natura significa, per me, cogliere le trasformazioni legate al succedersi dei mesi e delle stagioni.


Con la pratica dell’attenzione i segnali del cambiamento si manifestano anche da un giorno all’altro: a volte si tratta di sfumature, segnali “deboli” eppure con una sensorialità allenata anche i piccoli dettagli ci parlano dei cambiamenti in atto.
La diversa inclinazione della luce, dell’umidità dell’aria, i primi voli degli uccelli che si radunano in vista delle migrazioni (anche nelle città!), i profumi che si fanno più intensi oppure delicati, la prima rugiada delle mattine più fresche.


Far caso a come cambia la Natura nel tempo delle stagioni è una pratica che ci porta ad osservare anche le trasformazioni che avvengono nella nostra natura di esseri umani: il cambiamento è la regola della vita, così come la natura si trasforma ciclicamente, anche noi siamo in perenne trasformazione.
Sensazioni del corpo, ritmo del respiro, emozioni e pensieri, ogni istante è diverso da quello precedente e da quello successivo.


Osservare le trasformazioni senza giudizio è una pratica che mi riporta al momento presente, alla sua verità e semplicità.
Spesso ci sono mesi, o stagioni, che ci rispecchiano di più, e altri che ci sembrano più distanti dal nostro sentire, che vorremmo scorressero in fretta: in queste preferenze a volte possiamo leggere molto più di noi stessi, quasi come uno specchio che riflette la nostra immagine.


Ricordo che negli anni passati settembre era il mio mese preferito, e anche oggi mi piace l’aria settembrina.
Stavo aspettando infatti settembre, e vorrei “gustarmelo”: sento che le trasformazioni fuori parlano di trasformazioni che riguardano anche me.
Ecco, questo settembre mi sembra proprio uno specchio.


Così, quando ho letto la poesia di Antonia Pozzi “Settembre”, mi sono detta: è questo che sento! La poesia ha proprio il potere, in alcuni momenti di grazia, di tradurre con nitidezza il (mio) sentire.
Antonia Pozzi, poeta adorata, infatti scrive:

e sono come chi
stia sulla riva di un lago
e guardi miti le cose
rispecchiate dall’acqua

Buon settembre dunque, buone giornate dolci e miti,

e buone contemplazioni.

Settembre

Boschi miei

che le nuvole del settembre

lente percorrono

mentre le prime foglie

crollano giù dai rami

e adunano umidore per i sentieri

intanto che nel cielo

gli alberi si denudano

così come di sera

quando cadono le ombre

giù dalle cime

s’incupisce la terra

e in alto si rivelano

i disegni dei monti

e delle stelle

miei boschi

vi è tanta pace

in questa vostra muta

rovina

che in pace ora alla mia

rovina penso

e sono come chi

stia sulla riva di un lago

e guardi miti le cose rispecchiate dall’acqua

Antonia Pozzi,

8 settembre 1933

Islanda – Photo Stefano Romani

Pratica del selvatico

Ruta 23 – Argentina

Tra i poeti che amo e che mi piace leggere c’è Gary Snyder.

Sintetizzare la sua biografia è impossibile per me, e dunque prendo a prestito la quarta di copertina di uno dei suoi libri, “Nel mondo poroso. Saggi e interviste su luogo, mente e wilderness” – edizioni Mimesis.

Gary Snyder, poeta, saggista e buddista laico. Nome legato alla Beat Generation e al movimento della controcultura negli anni ’60. Premio Pulitzer per la poesia nel 1975. E’ tra gli ispiratori dei movimenti del bioregionalismo e dell’ecologia profonda.

Un intellettuale (ma non so quanto possa essergli gradita questa “etichetta”) che ha coltivato nella sua lunga vita (è nato nel 1930) esperienze di profonda connessione con la natura, i paesaggi e le culture native americane, proponendo visioni etiche, politiche ed ecologiche di grande attualità.

Tra i temi che sento più interessanti per la mia personale ricerca c’è quello della selvaticità (wilderness).

Semplificando forse, con l’intento di suggerire qui solo alcuni spunti, per spiegare il punto può essere utile partire dall’esempio dei corridoi verdi nelle aree urbane, grazie ai quali si possono favorire processi di ripristino, o tutela, della biodiversità, almeno parte di essa.

Le pratiche di “selvaticità” vanno intese quindi come la creazione di “spazi” nella nostra esperienza di vita che ci permettano di ricontattare e riattivare quell’energia vitale che è in noi, è presente, anche se ci sembra sopita, perché proviene dalla nostra eredità come specie umana di Sapiens.

In qualche modo dunque, seguendo la metafora dei corridoi verdi, praticare la selvaticità può voler dire ripristinare quella nostra personale biodiversità per  aprirci ad una vita più ricca in termini di esperienze, conoscenza di noi stessi, anche di ampliamento dei nostri confini.

Aprirci alla selvaticità, alla parte meno “coltivata” di noi stessi, per accedere a quella saggezza “innata” che le migliaia di generazioni prima della nostra ci hanno lasciato come eredità biologica, come intelligenza, talento, creatività, immaginazione, linguaggio, espressione artistica.

E di nuovo, la natura è maestra in questo percorso.

Ma questo non significa che dobbiamo esplorare aree naturali selvagge, lontane da dove viviamo, per praticare la nostra selvaticità.

Si può accedere al selvatico anche nelle città in cui abitiamo se sappiamo cambiare il nostro sguardo, se “conosciamo il sentiero per il posto selvatico” se proviamo ad osservare con occhi diversi, senza pre-giudizi, quello che ci circonda e ciò che risuona in noi, “ciò che è spaventoso ma anche tranquillo”.

La poesia “ I posti selvaggi della terra” a me dice proprio questo: la città come organismo, corpo, con le sue autostrade, le stazioni di servizio, i camion. Mani, bocche, occhi. Conosciamo tutto, tutto ci è familiare, sappiamo come funzionano le cose.

Ma c’è un angolo selvatico, ognuno scoprirà quale, ognuno può trovare il proprio, e lì siamo soli. Non conosciamo esattamente le regole di quello che accade, non sappiamo come funziona e perché.

Può sembrarci spaventoso, perché non è controllabile, ma – forse proprio per questo – è anche profondamente tranquillo.

I POSTI SELVAGGI DELLA TERRA

I tuoi occhi, la tua bocca e le mani,

le autostrade pubbliche.

Mani, come stazioni di servizio,

grossi camion a brontolare negli angoli.

Occhi come lo sportello di un bancario

cambiavalute.

Amo ogni parte del tuo corpo

amici abbracciano le tue periferie

si autorizzano le coltivazioni agricole.

Ma io conosco il sentiero

per il tuo posto selvatico.

Non è che io lo preferisca,

ma li siamo quasi sempre da soli,

ed è spaventoso ma anche tranquillo.

Gary Snyder

Il genius loci

Fiume Urubamba, Perù

Nelle esperienze di Ecotuning che propongo in Natura, il saluto al Genius Loci è uno dei primi inviti che propongo al gruppo.

Il saluto al Genius Loci, che è poi lo Spirito del Luogo, è una pratica appresa grazie agli insegnamenti della Scuola di Ecopsicologia e, pur avendone percepito la potenza quasi subito, è con il tempo che ho compreso meglio quanto possa cambiare la relazione con il luogo naturale incontrato.

Anche nella vita di tutti i giorni, ogni volta che mi è possibile, il mio incontro con un luogo naturale inizia con un saluto: nulla di complicato, non c’è una “formula” da seguire, ciascuno nel tempo trova il proprio modo, se si è da soli con la mente e in silenzio. Ciò che fa la differenza è riconoscere l’alterità, ciò che è altro da noi e con cui possiamo entrare in dialogo.

E così ho deciso: non tornerò più in città. Resto con la natura, non solo dalla sua parte ma proprio insieme a lei. Qui c’è il bosco e ogni giorno lo frequento, come si dice “frequenta la chiesa, o la sinagoga”. Sono passati nove mesi, è autunno inoltrato. Ora non solo parlo agli alberi, ma gli alberi mi rispondono. Vado nel bosco a imparare a camminare da sola, senza pensieri, a guarire le ferite (…).

Chandra Candiani, “Questo immenso non sapere”

La Natura in cui siamo immersi, il paesaggio che ci ospita, attraverso questo riconoscimento, non sono più uno sfondo in cui ci muoviamo, sentendoci sempre al centro dell’attenzione. Iniziamo a percepire che non siamo soli, che siamo immersi in un flusso, talvolta impercettibile alla vista, eppure vivo, palpitante.

Per i nostri avi latini, e ancor prima greci, lo Spirito del Luogo era del tutto compreso e riconosciuto.

Nel bellissimo libro di Francesco Bevilacqua “Genius Loci. Il Dio dei luoghi perduti” edizioni Rubbettino, l’autore ci ricorda che per i latini ciascun luogo, una fonte, un fiume, un bosco, un’altura, aveva una divinità secondaria (rispetto a quelle olimpiche) che lo proteggeva e lo tutelava. Si riconosceva così ai luoghi, prosegue sempre Bevilacqua, uno status del tutto analogo a quello degli esseri umani.

L’esigenza di personificare i luoghi ha poi preso la forma, nella mitologia greca e latina e poi anche nelle evoluzioni culturali successive, di personaggi, sempre femminili, che ritroviamo nella poesia, nelle leggende, nell’arte, nella cultura popolare: le Ninfe e le Fate.

Sempre citando Bevilacqua, si tratta di spiriti intermedi tra l’uomo e le divinità ufficiali che nascono appunto dalla necessità degli uomini di personificare i luoghi o gli elementi della natura (fiumi, mari, alberi, montagne, ecc).

Andando alle origini della storia delle culture umane, Bevilacqua sottolinea che il punto di inizio si ritrova nelle popolazioni di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico che, costrette dal bisogno di propiziarsi le forze della natura espiando la colpa di avere ucciso animali (nel timore che, a causa della caccia, gli animali scomparissero) immaginarono spiriti femminili cui rivolgere riti e preghiere che troviamo dipinti sui muri di vari siti preistorici: donne-uccello, esseri-farfalla.

La storia delle migliaia di generazioni di esseri umani che ci hanno preceduto è racchiusa nei nostri geni, ognuno di noi ne è figlio.

Per un lunghissimo tempo l’uomo ha riconosciuto, ringraziato, onorato, rispettato la Natura, per ragioni non solo di “utilità” ma comprendendo che la Natura ha una sua “autonomia” e anche suoi “scopi” in un disegno che è molto più grande dell’uomo, di cui tuttavia l’uomo è parte.

Sono convinta che tornare a riconoscere i luoghi come dotati di “spirito”, di una individualità, della facoltà di manifestarsi, di compiersi e anche di entrare in comunicazione profonda con noi, sia un primo fondamentale passo per cambiare la nostra prospettiva e la nostra relazione con la Natura e i paesaggi.

A partire dai paesaggi in cui trascorriamo la nostra vita, che sono tutt’uno con la nostra storia e dunque sono parte di noi così come noi siamo parte di tali paesaggi.

Mettendoci in ascolto, osservando i dettagli, prestando attenzione, sentiremo la vita che scorre attorno a noi, anche se viviamo in città, anche se abbiamo a disposizione solo qualche albero in un parco vicino a casa, o se vediamo dalla nostra finestra il profilo di una montagna. E sarà sempre uno scambio, e ci sorprenderemo e ci commuoveremo per la bellezza che è attorno a noi.

il mio incontro con l’ecopsicologia

Le esperienze di relazione e contatto con la natura, da umana curiosa e fortemente attratta dalla bellezza, mi hanno fatto scoprire e approfondire negli anni i temi affrontati dall’ecopsicologia, una disciplina nuova e antica al tempo stesso, perché profondamente radicata nella visione del rapporto dell’uomo con la natura ed il cosmo.

Sviluppatasi come “corpo” teorico a partire dagli anni ’90 grazie ad un gruppo di psicologi, biologi, fisici, antropologi, storicice ed ecologi, l’ecopsicologia sintetizza, rielabora e amplia  visioni sviluppate nell’ambito di alcune scienze e discipline, in primis l’ecologia e la psicologia ambientale, che hanno individuato un nuovo e originale percorso con applicazione in molteplici ambiti: psico terapeutici, di formazione ed educazione, di aiuto alle comunità, di motivazione e team building in ambito organizzativo, di crescita personale e altri ancora.

Ho sempre sentito la presenza viva

Degli alberi

La foresta che mi chiama così profondamente

Quanto il mio respiro

Come se il bosco fosse il midollo delle mie ossa

Come se

Io stesso fossi un albero, un arco della grande

Chioma, che respira, si allunga

Accanto a un ruscello spumeggiante

Come quello

Immenso in questo bosco,

Che chiama

Che sussurra casa

Michael S. Glaser, La presenza degli alberi

L’ecopsicologia, rispetto alle scienze da cui è stata ispirata,  propone un salto evolutivo: partendo dal riconoscimento della profonda connessione che ci lega come esseri umani al Pianeta Terra e alla Natura giunge a rivedere il paradigma della “visione antropocentrica” prevalente, in cui l’uomo è al centro di un processo di dominio e controllo sulla natura, per riconoscere e valorizzare una nuova concezione “ecocentrica”, in cui l’uomo, riconoscendosi  parte integrante della Natura, cambia il proprio modo di relazionarsi con l’altro, un “altro” che può essere animato o inanimato, comunque parte del cosmo, tanto quanto lo è l’uomo.

La Natura assume un ruolo centrale nel processo di cambiamento di visione e, anche, di crescita personale: grazie infatti ad una esperienza più consapevole di connessione, relazione, riconoscimento e dialogo con la Natura si è portati come individui a riconoscere e  valorizzare i propri sfaccettati talenti, e ad esprimere il proprio “potere personale” con comportamenti, atteggiamenti e azioni che possono aiutarci a vivere più pienamente e con significato la nostra vita, a riconoscere il valore di chi ci ha preceduto e a preservare, per chi verrà dopo di noi, la  ricchezza più grande, il nostro meraviglioso e unico Pianeta verde azzurro, la nostra casa: la Terra.